LOVE JOB
Il grande dilemma del nostro tempo si articola in due semplici parole che hanno raggiunto gli apici opposti di un quadrato semantico esistenziale. Sul dizionario DeMauro/Paravia i due sostantivi in questione paiono non avere nulla in comune, ma proprio nulla. L'unica costante è l'oroscopo, lo zodiaco, che li vede sempre affiancati in una sorta di fatalismo categorico. Lavoro, Amore.
In effetti il lavoro è certamente: 1 impiego di energia diretta a un fine determinato; 2 attività propria dell’uomo, volta alla produzione di beni o servizi; 3a esercizio di un mestiere, di una professione, di un’arte; occupazione retribuita; 3b posto dove si lavora. Nulla da eccepire e poco a che vedere con l'amore. Eppure a parte le altre definizioni di questo improbabile sentimento, che poco si adattano al mio caso ("1a affetto profondo verso qcn.; 1c nella religione cristiana, somma benevolenza di Dio verso le creature | slancio spirituale verso Dio e il prossimo") c'è n'è una in particolare che attira la mia attenzione: "1b sentimento intenso ed esclusivo verso qcn., spec. una persona dell’altro sesso, basato sul desiderio erotico e sull’affetto". Esclusivo, sempre citando il DeMauro/Paravia, non può adattarsi molto al contesto emotivo se non in un ben preciso passaggio. Riporto qui tutte le definizioni per completezza: "1 che esclude; 2a diretto o dedicato solo ad alcune persone con esclusione di tutte le altre / che esclude qualsiasi interferenza da parte di altre persone per un forte senso del possesso; 2b riservato a pochi privilegiati; 3 che gode di un’esclusiva commerciale; 4 BU che ritiene valide solo le proprie idee". Fra tutte la 2a mi sembra decisamente la più adeguata a definire l'esclusività erotica. Ecco allora forse mi appare il velo di un legame fra le due cose, ma certamente nei termini di una indiretta connessione con l'individualità, o meglio con il Possesso, che risulta essere: "1a facoltà di disporre liberamente di un bene di cui si è proprietari o fruitori, di esercitare un diritto e sim." Mi pare che questa sia l'unica assonanza che è possibile identificare, quindi. Ma ci torno fra poco.
C'è poi certo la questione della famiglia, definita ancora come segue: "1 insieme di persone unite da un rapporto di parentela o affinità; spec., il nucleo formato dal padre, dalla madre e dai figli, che costituisce l’istituzione sociale di base della società; 2 casata, stirpe. Il lavoro, e l'ambizione ad esso, toglie tempo alla famiglia, che è l'istituzione base della nostra società. Il pilastro fondativo del mondo fin da molto prima del del proletariato, del latifondo, del sistema nobiliare, delle caste e delle casate (e qui mi fermo). La famiglia nucleare, con tutta la buona assonanza con la guerra fredda è da sempre l'arma più potente della società capitalistica. Marcuse, seppur piuttosto avventato nel proporre soluzioni estreme per riformare definitivamente la società, aveva ben capito come la famiglia fosse al fondo di una radicale dottrina reazionaria. Il clero e la nobiltà prima, così come la borghesia benpensante ora, fondano una buona parte del loro strapotere sociale sul condizionamento familiare. Non che sia solo questo, ci mancherebbe, ma il confine fra le radici diciamo così naturali della famiglia e la sua deviazione istituzionale (le definizioni di questi due termini le ometto per brevità) sono di certo piuttosto labili. Di quasto parlarono a loro tempo anche Marx ed Engels, come pure Deleuze e Guattari (seppur in senso leggermente diverso) ne L'Anti-Edipo, e Freud, Popper, solo per citarne alcuni. Diciamo che la possiamo definire, così per dire, tout court, una sorta di condizionamento sociale profondo, proprio perchè attecchisce ad una struttura relazionale basilare. Il dibattito è sempre aperto su questa questione, certo, e la psicologia ufficiale non può accettare di relegare la famiglia ad un mero articolo di repertorio del controllo sociale. E pur essendo essa il primo degli organi di controllo attraverso l'autorità parentale, non viene mai sottolineato come essa non sia assolutamente autosufficiente, ma del tutto incorporata nel sistema socio-mediatico in cui viviamo.
Già perchè il problema in definitiva è questo: la famiglia e l'amore hanno una storia comune finchè la definizione di amore resta quella di cui poco sopra, basata sul Possesso.
Dunque, provo a ricapitolare quanto detto fin'ora per non perdermi: la famiglia, che è alla radice di tutte le forme di relazione umana, è anche una istituzione ed è la sede dell'amore, inteso anche come esercizio del possesso e del diritto. E Il lavoro in tutto questo? Che c'entra? Bene. Esprimerò a questo proposito la mia personale opinione, che è solo mia e del tutto non condivisibile: il lavoro, assolve a due compiti, uno di ordine sociale e uno individuale. Partendo da quest'ultima notazione direi che esso può essere definito come un sistema di realizzazione delle possibilità di un singolo essere umano, all'interno dell'ideologia individualistica, che definirei, a sua volta, un sottoprodotto del sistema capitalistico. Come funzione sociale esso è parte di un meccanismo di sostentamento e di un sistema economico. Esso è retribuito, salariato ed è la base fondativa del capitalismo moderno. In quanto tale esso è uno strumento di due poteri in lotta fra loro ed ha potenzialità sovversive, anzi direi rivoluzionarie. Ma questo lo sappiamo tutti no?
Ed arrivo al punto: la famiglia ed il lavoro fanno a cazzotti perchè l'attrito che si crea fra di loro svela delle contraddizioni profonde del sistema: se sono troppo individualista (quindi ideologicamente asservito al capitalismo) trascuro la famiglia per l'ambizione e per il lavoro; se sono il vero proletario modello sono alla base di un sistema di potere che mi tiene in pugno (per lo meno in questo momento storico) e comprometto la famiglia perchè non gli fornisco un adeguato sostentamento. la favola dei "Due cuori ed una capanna" non funziona, soprattutto ora. E' sostanzialmente una favola moderna e per me una favola di estremo asservimento, nella quale la condizione ideale è quella di un isolamento infunzionale socialmente ed individualmente, del vivi e lascia vivere e dello svezzamento della prole in una dimensione sempre sul limite delle possibilità economiche familiari. E' di nuovo parte di una visione fatalistica e zodiacale della vita.
L'amore, invece, non è per me l'esercizio di un possesso e del diritto e non è libertà di avere una famiglia. Che cos'è precisamente è difficile a dirsi, ma è sicuramente un sentimento che si fonda sul riconoscimento delle duplici spinte cui siamo sottoposti, quella individuale e quella comunitaria, sociale e ci naviga in mezzo, sottile e morbido. L'amore non è per me la realizzazione di una favola ma la possibilità di effettuare scelte impreviste, alla luce di nuove conoscenze, di nuove possibilità. E' la possibilità, che ci rimane dalla nostra condizione preumana e preculturale, di reimpostare la vita per restare complementari all'interno di un diodo; il che significa rispettare le esigenze (indotte) individuali e quelle (edotte) sociali dell'altro e favorirle per il miglioramento di se stessi e del mondo. In altre parole accettare le contraddizioni profonde dell'altro e viverle come proprie. Accettare la duplice pulsione verso le ambizioni lavorative e quelle familiari e riconoscerle nell'altro come in se stessi, perchè parte di un - per ora - irrisolvibile conflitto. Questo conflitto di cui parlo è vissuto diversamente da individuo ad individuo, da famiglia a famiglia, da quartiere a quartiere e così via fino alle differenze generali fra nazioni e stati ed è per me davvero strettamente dipendente dalle condizioni economiche di base e dalle concrete possibilità di realizzazione individuale che offre il mercato di cui siamo parte. Ritorno a dire come ho sempre sostenuto da circa cinque anni a questa parte, che noi siamo dei prodotti sociali e che buona parte della nostra attività quotidiana consiste nel venderci, sotto forma di lavoro. Che almeno questa vendita ci consenta di trarre un profitto personale e una gratificazione sociale ed individuale mi sembra il minimo per rendere le giornate meno grigie. Io sono fortunato, perchè mi è stata data la possibilità di cercare un lavoro che mi piaccia (e di questo devo ringraziare mia madre, mia nonna, mia zia e la mia famiglia) e sono fortunato perchè amo una donna straordinaria, che sento mi completa in maniera assoluta. Ma sono anche bravo (o brawl), perchè queste possibilità non me le sono lasciate sfuggire e me le sono coltivate. Se non l'avessi fatto, avrei finito col rimpiangerlo in futuro e lo avrei forse fatto rimpiangere alla mia famiglia, a cui, invece, vorrei dare le stesse possibilità che ho avuto io. Possibilità che hanno poco a che vedere col denaro (ma un poco spesso decisivo). Sono invece, piuttosto, il frutto di una ricerca di se stessi, che ha sede primariamente nella scelta e nella pianificazione strategica del futuro e nella messa in discussione permanente di se stessi e delle proprie potenzialità e possibilità, nel rifiuto permanente dell'esercizio del potere per il potere. Sono la diretta conseguenza di un equilibrio che coordina se stessi al resto del mondo, in modo realistico e lucidamente appassionato.
In effetti il lavoro è certamente: 1 impiego di energia diretta a un fine determinato; 2 attività propria dell’uomo, volta alla produzione di beni o servizi; 3a esercizio di un mestiere, di una professione, di un’arte; occupazione retribuita; 3b posto dove si lavora. Nulla da eccepire e poco a che vedere con l'amore. Eppure a parte le altre definizioni di questo improbabile sentimento, che poco si adattano al mio caso ("1a affetto profondo verso qcn.; 1c nella religione cristiana, somma benevolenza di Dio verso le creature | slancio spirituale verso Dio e il prossimo") c'è n'è una in particolare che attira la mia attenzione: "1b sentimento intenso ed esclusivo verso qcn., spec. una persona dell’altro sesso, basato sul desiderio erotico e sull’affetto". Esclusivo, sempre citando il DeMauro/Paravia, non può adattarsi molto al contesto emotivo se non in un ben preciso passaggio. Riporto qui tutte le definizioni per completezza: "1 che esclude; 2a diretto o dedicato solo ad alcune persone con esclusione di tutte le altre / che esclude qualsiasi interferenza da parte di altre persone per un forte senso del possesso; 2b riservato a pochi privilegiati; 3 che gode di un’esclusiva commerciale; 4 BU che ritiene valide solo le proprie idee". Fra tutte la 2a mi sembra decisamente la più adeguata a definire l'esclusività erotica. Ecco allora forse mi appare il velo di un legame fra le due cose, ma certamente nei termini di una indiretta connessione con l'individualità, o meglio con il Possesso, che risulta essere: "1a facoltà di disporre liberamente di un bene di cui si è proprietari o fruitori, di esercitare un diritto e sim." Mi pare che questa sia l'unica assonanza che è possibile identificare, quindi. Ma ci torno fra poco.
C'è poi certo la questione della famiglia, definita ancora come segue: "1 insieme di persone unite da un rapporto di parentela o affinità; spec., il nucleo formato dal padre, dalla madre e dai figli, che costituisce l’istituzione sociale di base della società; 2 casata, stirpe. Il lavoro, e l'ambizione ad esso, toglie tempo alla famiglia, che è l'istituzione base della nostra società. Il pilastro fondativo del mondo fin da molto prima del del proletariato, del latifondo, del sistema nobiliare, delle caste e delle casate (e qui mi fermo). La famiglia nucleare, con tutta la buona assonanza con la guerra fredda è da sempre l'arma più potente della società capitalistica. Marcuse, seppur piuttosto avventato nel proporre soluzioni estreme per riformare definitivamente la società, aveva ben capito come la famiglia fosse al fondo di una radicale dottrina reazionaria. Il clero e la nobiltà prima, così come la borghesia benpensante ora, fondano una buona parte del loro strapotere sociale sul condizionamento familiare. Non che sia solo questo, ci mancherebbe, ma il confine fra le radici diciamo così naturali della famiglia e la sua deviazione istituzionale (le definizioni di questi due termini le ometto per brevità) sono di certo piuttosto labili. Di quasto parlarono a loro tempo anche Marx ed Engels, come pure Deleuze e Guattari (seppur in senso leggermente diverso) ne L'Anti-Edipo, e Freud, Popper, solo per citarne alcuni. Diciamo che la possiamo definire, così per dire, tout court, una sorta di condizionamento sociale profondo, proprio perchè attecchisce ad una struttura relazionale basilare. Il dibattito è sempre aperto su questa questione, certo, e la psicologia ufficiale non può accettare di relegare la famiglia ad un mero articolo di repertorio del controllo sociale. E pur essendo essa il primo degli organi di controllo attraverso l'autorità parentale, non viene mai sottolineato come essa non sia assolutamente autosufficiente, ma del tutto incorporata nel sistema socio-mediatico in cui viviamo.
Già perchè il problema in definitiva è questo: la famiglia e l'amore hanno una storia comune finchè la definizione di amore resta quella di cui poco sopra, basata sul Possesso.
Dunque, provo a ricapitolare quanto detto fin'ora per non perdermi: la famiglia, che è alla radice di tutte le forme di relazione umana, è anche una istituzione ed è la sede dell'amore, inteso anche come esercizio del possesso e del diritto. E Il lavoro in tutto questo? Che c'entra? Bene. Esprimerò a questo proposito la mia personale opinione, che è solo mia e del tutto non condivisibile: il lavoro, assolve a due compiti, uno di ordine sociale e uno individuale. Partendo da quest'ultima notazione direi che esso può essere definito come un sistema di realizzazione delle possibilità di un singolo essere umano, all'interno dell'ideologia individualistica, che definirei, a sua volta, un sottoprodotto del sistema capitalistico. Come funzione sociale esso è parte di un meccanismo di sostentamento e di un sistema economico. Esso è retribuito, salariato ed è la base fondativa del capitalismo moderno. In quanto tale esso è uno strumento di due poteri in lotta fra loro ed ha potenzialità sovversive, anzi direi rivoluzionarie. Ma questo lo sappiamo tutti no?
Ed arrivo al punto: la famiglia ed il lavoro fanno a cazzotti perchè l'attrito che si crea fra di loro svela delle contraddizioni profonde del sistema: se sono troppo individualista (quindi ideologicamente asservito al capitalismo) trascuro la famiglia per l'ambizione e per il lavoro; se sono il vero proletario modello sono alla base di un sistema di potere che mi tiene in pugno (per lo meno in questo momento storico) e comprometto la famiglia perchè non gli fornisco un adeguato sostentamento. la favola dei "Due cuori ed una capanna" non funziona, soprattutto ora. E' sostanzialmente una favola moderna e per me una favola di estremo asservimento, nella quale la condizione ideale è quella di un isolamento infunzionale socialmente ed individualmente, del vivi e lascia vivere e dello svezzamento della prole in una dimensione sempre sul limite delle possibilità economiche familiari. E' di nuovo parte di una visione fatalistica e zodiacale della vita.
L'amore, invece, non è per me l'esercizio di un possesso e del diritto e non è libertà di avere una famiglia. Che cos'è precisamente è difficile a dirsi, ma è sicuramente un sentimento che si fonda sul riconoscimento delle duplici spinte cui siamo sottoposti, quella individuale e quella comunitaria, sociale e ci naviga in mezzo, sottile e morbido. L'amore non è per me la realizzazione di una favola ma la possibilità di effettuare scelte impreviste, alla luce di nuove conoscenze, di nuove possibilità. E' la possibilità, che ci rimane dalla nostra condizione preumana e preculturale, di reimpostare la vita per restare complementari all'interno di un diodo; il che significa rispettare le esigenze (indotte) individuali e quelle (edotte) sociali dell'altro e favorirle per il miglioramento di se stessi e del mondo. In altre parole accettare le contraddizioni profonde dell'altro e viverle come proprie. Accettare la duplice pulsione verso le ambizioni lavorative e quelle familiari e riconoscerle nell'altro come in se stessi, perchè parte di un - per ora - irrisolvibile conflitto. Questo conflitto di cui parlo è vissuto diversamente da individuo ad individuo, da famiglia a famiglia, da quartiere a quartiere e così via fino alle differenze generali fra nazioni e stati ed è per me davvero strettamente dipendente dalle condizioni economiche di base e dalle concrete possibilità di realizzazione individuale che offre il mercato di cui siamo parte. Ritorno a dire come ho sempre sostenuto da circa cinque anni a questa parte, che noi siamo dei prodotti sociali e che buona parte della nostra attività quotidiana consiste nel venderci, sotto forma di lavoro. Che almeno questa vendita ci consenta di trarre un profitto personale e una gratificazione sociale ed individuale mi sembra il minimo per rendere le giornate meno grigie. Io sono fortunato, perchè mi è stata data la possibilità di cercare un lavoro che mi piaccia (e di questo devo ringraziare mia madre, mia nonna, mia zia e la mia famiglia) e sono fortunato perchè amo una donna straordinaria, che sento mi completa in maniera assoluta. Ma sono anche bravo (o brawl), perchè queste possibilità non me le sono lasciate sfuggire e me le sono coltivate. Se non l'avessi fatto, avrei finito col rimpiangerlo in futuro e lo avrei forse fatto rimpiangere alla mia famiglia, a cui, invece, vorrei dare le stesse possibilità che ho avuto io. Possibilità che hanno poco a che vedere col denaro (ma un poco spesso decisivo). Sono invece, piuttosto, il frutto di una ricerca di se stessi, che ha sede primariamente nella scelta e nella pianificazione strategica del futuro e nella messa in discussione permanente di se stessi e delle proprie potenzialità e possibilità, nel rifiuto permanente dell'esercizio del potere per il potere. Sono la diretta conseguenza di un equilibrio che coordina se stessi al resto del mondo, in modo realistico e lucidamente appassionato.
6 Comments:
At 4:36 PM, Anonimo said…
Ancora una volta stà diatriba lavoro amore famiglia.
Mhà saranno i trent'anni... per fortuna nè ho ventisei!!
At 6:54 PM, Anonimo said…
Al corso sull'interculturalità hanno detto che non solo i libri di testo vanno rivisti, secondo un'ottica nuova che superi l'etnocentrismo, ma anche le definizioni dei dizionari, da cui partono i discorsi.
Forse devi rivedere le definizioni di amore, famiglia e lavoro. Perchè bisogna stare attenti a non stare in famiglia per dovere, ma può essere vitale lavorare con amore e amare significa possedere? In senso biblico? O secondo il diritto romano che dava ai padri diritto di vita e di morte sui figli? O il non lontano diritto italiano che assolveva i mariti uxoricidi cornuti?
At 8:35 PM, Anonimo said…
Chiedo scusa per aver offeso con tale errore la lettura di mr.brillìo.
At 8:39 PM, tontolini said…
dunque dunque.
come prima cosa direi che 26 anni a torino, nè, sono diversi da 26 anni a napoli, uè.
Poi, senza entrare nel dettaglio di un discorso al quale bisognerebbe dedicare tutto un blog e una intera biblioteca, dico solo che le seghe sono un'arma a doppio taglio. Autogratificano, sì, ma stancano e tolgono energie utili per altre cose. Quindi lustriamo tutti il battacchio della campana, ma senza compromettere la qualità della vita.
Ultima cosa. Ma io nel post, mio "ignoto" commentatore, lo dico molto chiaramente quello che penso dell'amore, dichiarando una mia posizione del tutto incompatibile con quella ufficiale. Perchè in effetti, i dizionari, strumenti linguistici estremamente sopravvalutati, hanno ancora la funzione non da poco, di produrre un "senso comune" per parole di uso quotidiano. Quindi definiscono il significato condiviso di una parola. La famiglia, al di là di ogni possibile definizione soggettiva, è un organo istituzionale di potere, nel quale i ruoli sono ben definiti come i diritti e i doveri al suo interno (la legge in proposito, ha molto da dire). Poi, per quanto mi riguarda, l'amore è una connotazione più che desiderabile che serpeggia all'interno dell'istituzione come una sorta di moto anarchico e rivoluzionario, mettendo sempre in discussione ruoli e compiti. Ma questo l'ho già scritto. L'amore è un fattore desiderabile in famiglia, ma, ahimè, non oggettivamente indispensabile per la sua esistenza.
At 9:34 PM, Anonimo said…
In effetti ha ragione "losaichisono": il senso del possesso (che fu prealessandrino) non ha nulla a che vedere con l'amore che (lo ammetti) non ha necessariamente sede (o sbocco?) nella famiglia.
Ma il problema nasce dal fatto che tu tendi a concepire le cose per categorie troppo nette.(Usare i mille sensi di un vocabolario o ragionare per "asserviti al capitalismo" e "proletari modello" significa impedirsi di comprendere la realtà delle cose. Rifiutare il concetto "istituzionale" di amore e famiglia, poi, non te ne libera affatto, anzi forse al contrario te ne rende più succube).
Sarebbe forse meglio dare ascolto Montale:
"Non chiederci la parola che squadri da ogni lato / l'animo nostro informe... Codesto solo oggi possiamo dirti /ciò che non siamo, ciò che non vogliamo"
At 10:15 PM, tontolini said…
Ebbene, la critica la accetto, ma (la realtà delle cose non penso esista. Semmai la dialettica storica. Ne consegue che nel post mi esprimo per estremi ed estreme "categorizzazioni". Ma lo faccio proprio per decostruire, se mi passate il termine un po' arduo, una serie di presupposti sui quali si fonda la cultura occidentale. Appunto le suddette istituzioni della famiglia e del lavoro, che subiscono la pressione categorica di alcune spinte sociali che identifico attreverso la teoria marxista. L'amore, invece, che rifiuta le categorizzazioni, viene identificato genericamente dal sistema culturale come un sentimento esclusivo. Innegabile che lo sia nella cultura occidentale dominante... basta pensare alla questione della fedeltà e alle interpretazioni legali di questo sentimento. Il suo potere, invece, è per me sovversivo, come ho già detto, perchè incontrollabile proprio dalla cultura che lo alimenta. L'amore, che pure esiste NELLA cultura, se vissuto a fondo e un po' freudianamente, ne svela le contraddizioni e rende meno orribile la dimensione categorica della vita sociale, che è sempre "costruita". E qui mi rifaccio un po' a Vian, un po' a Brecht e un po' a Derrida.) con qualche piccola riserva.
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